Scritto da Stella Maggi
La ripartizione dei fondi previsti dalla legge 119 contro il femminicidio, la mancanza di un ministro per le Pari Opportunità e sostanzialmente un certo immobilismo nell’affrontare il problema della violenza contro le donne. Siamo sempre al punto di partenza. Prova a dirlo a Ilaria che ha 24 anni e al suo bambino di due che da giorni lottano contro la morte al Meyer di Firenze. A sparare loro, secondo un copione ormai ferreo, Riccardo Bizzarri, il padre del piccolo, ex compagno della donna, che si è suicidato dopo l’agguato. Prova a dirlo alla studentessa polacca stuprata in centro, a Milano, da due balordi mentre camminava per tornare a casa o alla donna romana picchiata dall’ex che da tempo la tormentava anche per rapinarla. Prova a dirlo a quante hanno paura a lasciare un uomo violento o non hanno una casa dove andare dopo averlo denunciato o vivono nel timore di incontrarlo per strada . Giorno dopo giorno la cronaca rilancia, in sordina, episodi che raccontano quanto ci sia ancora da fare per definire l’Italia un paese civile; giorno dopo giorno le volontarie delle associazioni che si occupano di aiutare le donne in difficoltà combattono al loro fianco una battaglia per aiutarle a rinascere. E noi sappiamo bene quanto può essere dura e difficile. Tutto un lavoro fatto in sordina, anche questo come da copione, come sempre quando si parla della violenza alle donne, problema che ancora non ha trovato un posto degno di nota da parte delle istituzioni. Eppure, proprio durante la conferenza stampa dell’otto marzo nella sede di Telefono Rosa, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano ha ribadito la necessità di un intervento immediato perché il numero dei femminicidi nel nostro paese continua ad aumentare. I dati dello scorso anno parlano chiaro: 177 donne uccise, una ogni 2 giorni praticamente. Ed è inquietante il numero delle denuncie per stalking, più di quarantamila a partire dal 2009, per non parlare degli stupri e degli abusi.
Così la domanda che sorge spontanea ora non è più solo come contrastare il fenomeno, argomento sul quale le associazioni e le volontarie si confrontano da anni, ma perché non si voglia affrontare in modo serio, con una presa di coscienza collettiva e culturale. E di argomenti su cui riflettere, ancora una volta, ce ne sono molti.
Primo fra tutti quello del ministero per le Pari Opportunità, scomparso dopo le dimissioni di Josefa Idem. E stiamo parlando di giugno del 2013. Il governo Letta lo ha trasformato in un dipartimento del dicastero del Lavoro, affidando il compito di gestirlo al sottosegretario Cecilia Guerra, il suo successore, Matteo Renzi ha azzerato di nuovo tutto, limitandosi a non rispondere alle incessanti richieste e appelli dei movimenti e delle associazioni femminili. La delega è rimasta nelle sue mani. Eppure servirebbe un collante per restituire alle donne attenzione e iniziative, prendere le redini della situazione, mettere in pratica i principi della convenzione di Istanbul, la “convenzione del consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. Il testo, il primo del genere, entrerà in vigore dal primo agosto e dovrebbe spingere i governi ad azioni concrete per aiutare tutte le donne vittime e soprattutto per attuare azioni di prevenzione concreta. All’articolo 9 , ad esempio, la convenzione riconosce l’importanza del lavoro delle Ong pertinenti e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne invitando “le parti” a instaurare “un’efficace cooperazione con tali organizzazioni”.
Indicazione che però non sembra affatto considerata nella discussione in atto sulla ripartizione dei finanziamenti per i centri antiviolenza previsti dalla legge 119, quella contro il femminicidio che già tante discussioni aveva sollevato, quando entrò in vigore, ad ottobre dello scorso anno . Secondo quanto anticipato quasi due settimane fa dal Sole 24 ore lo stanziamento di 17 milioni di euro (10 per il 2013 e 7 per quest’anno) sarà destinato per il 33 per cento alla creazione di nuovi centri antiviolenza e case rifugio. L’ottanta per cento dei rimanenti 11 milioni andrà ad interventi regionali già operativi e già schedati da un’apposita mappatura e solo due milioni circa saranno a disposizione di centri antiviolenza e case rifugio, pubbliche e private. Servirà ancora un mese perché la ripartizione sia definitiva, visto che la conferenza Stato Regioni sta ancora discutendo sui criteri di distribuzione. Ma a perdere la battaglia sembrano essere ancora una volta le donne e le associazioni che per prime hanno dato vita ai centri antiviolenza e alle strutture di sostegno, contando solo sulle proprie forze e sulla consapevolezza delle reali difficoltà ed esigenze delle vittime di abusi e violenze. A loro andrà davvero poco, nemmeno il riconoscimento dell’impegno del campo. Il testo, del resto, è ancora farraginoso, non si conoscono le modalità con cui si è stilata la mappatura delle strutture operative: 352 in tutt’Italia, un numero considerato eccessivo dalla maggior parte delle donne che operano ogni giorno sul territorio. In Sicilia, ad esempio, sono stati contati ben 62 spazi tra centri antiviolenza e case rifugio, ma la realtà sembra essere ben diversa. Non sembra esserci, inoltre, da parte del legislatore, una chiara consapevolezza del lavoro che si deve portare avanti e della differenza sostanziale tra i centri e le case rifugio che devono essere segrete per proteggere le donne in pericolo.
L’accoglienza alle donne che hanno fatto denuncia, il sostegno a quelle che stanno subendo abusi e crudeltà in famiglia, la disponibilità a capire il loro dramma non si improvvisano e c’è il timore che per gestire e disporre di una cifra consistente in tempi ravvicinati si creino strutture inadeguate, di nessuna utilità concreta. Ancora una volta, dunque, sulla pelle delle donne potrebbe crearsi un intreccio d’interessi economici che non aiuterà certo ad affrontare il problema. Servirebbe, da parte delle regioni, che sono destinate a gestire la maggior parte dei fondi, una strategia comune, considerando le diversità culturali esistenti in Italia tra nord e sud . Compito che non può essere improvvisato e che richiede, come già sottolineato da tempo, nei suoi appelli da Maria Gabriella Moscatelli, la presidente di Telefono Rosa, “una guida politica competente che armonizzi i vari interventi”. E quindi torniamo al tema di partenza, all’esigenza di avere un ministro che si occupi di dar vita a una politica nazionale, a una vera risposta alla violenza contro le donne, che passi dalle scuole ai mass media, cercando di educare, curare e soprattutto prevenire . Prova a dirlo a Ilaria e al suo bambino che forse in un paese diverso, più attento, più rispettoso, più compatto nel denunciare le difficoltà, avrebbero evitato quegli spari. Forse.